[Paolo Barnard]

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Un bambino di 10 anni impara cos’è il dolore dell’esclusione sociale. E impara a odiarli.

Io e il mio amico Claudio siamo il classico IO. La I è il sottoscritto, dieci anni compiuti, pelle e ossa; la O è lui, bombolone di nove anni. E cosa facciamo in quest’estate del 1968? Andiamo in parrocchia alla San Giuliano a giocare a basket. Lì ci sono un po’ tutte le razze, cioè la razza del bimbo fighettino che ha sempre le Converse All Star e i pantaloncini di raso alla Lakers; poi c’è quello più anonimo, e quelli che sono lì a fare i bulli. Noi due siamo gli sfigati. A basket facciamo cagare, non ci chiamano mai se non quando un pomeriggio mancano i numeri per fare le squadre e allora sì, ma se mai tocchiamo la palla l’ordine perentorio è che la dobbiamo passare a quelli bravi SU-BI-TO! Ok. Non meniamo le mani e quando si fanno le catture siamo sempre sotto. Dal salumiere dirimpettaio poi la separazioni delle classi è spettacolare. A fine partite siamo tutti lì con la fame dei bambini, ma il panino col crudo e fontina (150 lire) è per quelli delle Converse All Star, quello con la mortadella (100 lire) per gli altri, e quello coi ciccioli verdi (55 lire) per noi due, siamo gli unici.

L’entrata della parrocchia dà su via Santo Stefano, strada del centro di Bologna, tutte case di fine ottocento messe malissimo, con quegli odori di cantine ammuffite, i muri scrostati e i fori delle schegge delle bombe della seconda guerra ancora lì a chiazza di leopardo su colonne, portoni e intonaco. In quelle case - che dopo la ristrutturazione degli anni ’80 oggi valgono la milza di tua madre a metro/q - a quel tempo ci vivevano i poveri di Bologna, le classiche vecchie ‘gattare’, i pensionati di guerra ecc. Ma anche i primi immigrati meridionali che arrivavano qui da noi. E questa storia inizia da uno di quelli, parte di una famiglia. Li vediamo arrivare un pomeriggio di giugno con le valige. Il padre che, veramente, sembrerebbe oggi la caricatura del siciliano fatta da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, la madre tutta in nero (tipo una saudita), e un figlio, un ragazzino sui 13-14 anni alto e segaligno, con questi occhi decorati da ciglia e sopracciglia talmente neri da sembrare truccati.

Nei pomeriggi seguenti ogni tanto lo si vedeva uscire dal pertugio che era la sua porta di casa e sedersi sul muretto di fronte al portone della parrocchia, dall’altra pare di via Santo Stefano, a fumare e a guardare noi che giocavamo, che stavamo assieme. Noi ragazzini sbirciavamo di tanto in tanto, e siccome la crudeltà appartiene a quelle età, qualcuno di noi nel gruppo iniziò a chiamarlo “Certosa”, come in “cimitero”, perché quel poveraccio aveva un solo vestito, giacca e pantaloni, con un solo paio di scarpe, tutto in nero, e stava sempre con quelli. Un beccamorto insomma, e così lo avevano soprannominato, Certosa. E cosa fanno i ragazzini stronzi? Fanno gli scemi fra di loro e ogni tanto pronunciano quel nome a voce alta, poi ridono con tutti che si girano nella sua direzione. Un lunedì – mi ricordo il giorno perché era il mio giorno delle lezioni di piano – un certo Buriani del nostro gruppo esagerò. La sfiga per lui, credo, fu che in quel momento al suo fianco c’erano un paio di ragazzine, parliamo sempre dell’età 10-13 anni, le quali quando Buriani sputò il suo “Certosaaaa!” si misero a ridere. Certosa scende dal muretto e attraversa la strada. Ops. Siamo in cinque o sei lì, di cui quelle due bimbe e io con Claudio, troppo piccoli per contare qualcosa. Buriani neppure se ne accorge e va in terra con una tempesta di pugni in faccia da paura. Poi Certosa gli pianta il ginocchio sul collo e gli spegne la sigaretta sulla guancia. Urli, panico, “Don Franco! Aiuto Don Francoooo! Don Franco!!!!”. Ma Certosa è scomparso in casa.

Passano due mesi, due mesi dove Certosa diventò il terrore della strada. Si usciva dalla parrocchia a gruppi di 10 e sempre accompagnati da Don Franco, ma lui, Certosa, stava su quel muretto, in attesa della pecora che fosse in ritardo o che, per dimenticanza, uscisse da sola. Ed erano massacri. Pestava, cattivo, perfido, una volta fu persino chiamata la polizia perché aveva morso il naso di un ragazzino staccandogli la pelle veramente, e quando arrivò il padre accadde il finimondo. Ma Certosa spariva sempre.

Agosto, giornata rovente, era la città degli agosti di una volta, vuota , dove il silenzio caldo ti poteva far sentire un motorino passare sui colli. Io e Claudio siamo in parrocchia da soli, gli altri in vacanza. Prima di arrivare avevamo ben controllato che lui non ci fosse, chissà, magari se ne sono tornati in Sicilia dai parenti. All’uscita sbirciamo e non c’è neppure lì. Ok, usciamo e chiudiamo il portone della parrocchia. Facciamo il primo passo ma c’è qualcosa. C’è qualcosa. Mi giro alla mia sinistra. Certosa è ritto in piedi e immobile sotto il nostro portico, da questa parte della strada, non dalla sua. Dio santo, nooo. Oddio e adesso? Claudio, credetemi, forse si stava facendo la pipì addosso, era troppo imbambolato e aveva gli occhi di una carpa rimasta dal pescivendolo dieci giorni. Certosa avanza lento, perfido. Il terrore fatto uomo ce l’abbiamo addosso ora. Fuggire a destra è inutile, quello ha il doppio delle nostre gambe, il portone della parrocchia l’abbiamo chiuso, cazzo!, e nel resto del nostro campo visivo c’è il deserto umano. Due bambini che vorrebbero urlare a un adulto “Signore, aiuto aiuto!”. No.

Certosa si ferma davanti a noi. Che sta facendo? Sta studiando l’osso da spaccare per primo con la salivazione in bocca? Che fa? Io ho una paura che non so dirvi, sono uno scheletrino di bimbo che non ha mai dato neppure uno schiaffo a sua sorella. Come si fa a fare le botte? Come fanno quelli che lo fanno? Ok, ora soffrirò tanto, inutile, è così.

Gli occhi color pece del killer sono fissi proprio su di me, e continua a non fare nulla. Fu lì che sfoderai la frase che mi salvò la vita. Con una maschera disinvolta incollata sul mio terrore gli dissi: “Ma perché ti chiamano Certosa?

Un fulmine azzerò le sinapsi di tutta la realtà accaduta in quei giorni, un reset totale. Lui scoppiò a piangere per singhiozzare questo: “Mi chiamano tutti Certosa… Certosa qui, Certosa là… Non ne posso più… Ma perché?....... Voi non sapete cosa vuol dire… Certosa Certosa Certosa Certosa Certosa di merda!!!!”. E i pochi secondi rimasti nel contatto con quell’essere furono solo lacrime collose da quegli occhi che sapevamo perfidi. Poi Certosa, come sempre faceva, sparì nel suo androne assieme alla sua giacchetta nera, pantaloni neri, scarpe nere. Non lo rivedemmo mai più.

Imparai lì la mia lezione. La perfidia degli occhi di quel ragazzino era lo specchio di quella che noi così incuranti sappiamo creare quando decretiamo che esistono gli accettati, e che esistono i rifiutati. E lo facciamo sempre su basi così fatue. Noi, la gente normale, torturatori inconsapevoli perché stupidi e infelici.

Avevo 10 anni.

Questo ha senso raccontare adesso.