[Paolo Barnard]

Ho visto una scena ieri.

 

Ho visto una scena in piscina ieri che ha fermato il mondo. Ha fermato il mio mondo e, per me, tutto il resto del mondo. In piscina vengono anche i disabili, fisici e mentali. Ci sono gli accompagnatori, o più raramente i familiari che li portano. Le carrozzine, l’argano per calarli in acqua, ecc. Nella piscina dove vado io c’è un corridoio in piastrelle azzurre che porta dagli spogliatoi alle vasche, e che fa un angolo retto vicino ai bagni. Lo si percorre per forza, ma il segmento più lungo è quello che parte dagli spogliatoi, così chi si spoglia davanti agli armadietti lo vede tutto.

Ieri ero appena arrivato, non c’era quasi nessuno, molto silenzio, ma quel silenzio che comunque fa rimbombo in piscina, non so se mi capite. Ero in piedi davanti a un armadietto e mi ero appena tolto la felpa, quando noto un ragazzo su una carrozzina fermo a metà del corridoio, come parcheggiato lì, da solo, rasente alla parete destra. Era in costume ed era non solo fisicamente disabile, braccia e gambe distorte, ma anche mentalmente disabile, lo sguardo non lasciava dubbi. Era fermo lì, leggermente ricurvo in avanti coi gomiti appoggiati ai braccioli.

Io ho continuato a spogliarmi, di tanto in tanto lo intravvedevo con la coda dell’occhio, poi non ho potuto non notare che la sua testa si era piegata ancor di più, non tanto, un poco, e dava dei piccoli sobbalzi. In un attimo mi è apparso chiaro, piangeva. Ma piano. Piano. Piangeva. Il mondo ha smesso di girare per me.

Non c’era nessuno, un corridoio di venti metri di piastrelle blu e quel ragazzo solo lì, che piangeva, da solo. Io immobile in pantaloni e torso nudo a fissarlo. Gli sono entrato dentro, tutto, in lui, nel suo pianto di solitudine. E non ho mai, mai nella mia vita toccato così tanta solitudine.

Non c’è nulla di più solo, di più abbandonato, di una mente schiacciata dall’impossibilità di elaborare ma che sente dolore. Di una mente e di un’anima soffocate dall’impossibilità di muoversi, di fare qualcosa per darsi sollievo, e che cedono alla disperazione. Tutto quell’essere stava così male da dover piangere, e io mi sono chiesto dove poteva quell’anima trovare aiuto, sollievo, soccorso in quei momenti della vita, così da solo. Mi sono chiesto quante volte gli sarà capitato di piangere così totalmente solo. Ho sentito un'incontenibile pietà per quel ragazzo. E lì mi è tornata in mente la favola dei libri del catechismo, con le illustrazioni dove il derelitto abbandonato da tutti piange, ma ignaro che dal cielo la mano di Gesù lo sta avvolgendo. Gesù lo ama. “Gli umili erediteranno la Terra”. E io so che non è vero, che non c’era uno straccio di nessuno ad amare dal cielo quel ragazzo piantato a metà di un corridoio di piastrelle, non c’è mai stato né ci sarà. E’ così orribilmente crudele. Lo è dall’inizio dei tempi, con l’aggiunta disperante che nessuno di noi mai capisce che l’unica mano di Gesù capace di dare salvezza è quella che creiamo noi, qui sulla nostra materiale Terra, quando sappiamo amare e consolare, e che se noi non lo faremo non ci sarà nessun Dio a farlo al posto nostro, né qui né dopo.

Lo dico ai pochissimi di voi che forse capiranno: tutto il mio lavoro vorrebbe arrivare a quel mondo migliore dove ci sia più tempo e benessere per darci di più gli uni agli altri sempre, che nessuno sia solo, lasciato, povero, torturato, angosciato, mai, mai a piangere da solo, anzi, che tutti i mezzi siano per lui.

Di fronte a una solitudine come quella che ho visto ieri il mondo mi si ferma. Diventa meno di niente, tutto il nostro fare e dire e dare importanza a questo e quello. Niente. Non conta più niente. Finché ci sarà una solitudine così, null’altro conterà niente per me.